Blog, Uncategorized

Oltre alla pratica: perché la Psicologia Perinatale?

In questo (giovane) sito ho finora raccontato quali sono alcune delle attività che svolgo negli ultimi tempi. Nell’articolo precedente ho invece scelto di spiegare gli eventi che mi hanno portato a farlo. Oggi voglio invece dare una cornice teorica a tutto ciò.

Prima di arrivare al nocciolo della questione, il perché, occorre spiegare cos’è.

La Psicologia Prenatale e Perinatale è un ambito di lavoro estremamente complesso. Come suggerisce il suo nome, si occupa del sostegno alla coppia genitoriale sia in gravidanza che nei primi anni del bambino, indicativamente i primi mille giorni.

La gravidanza, così come il parto, sono momenti di vita molto particolari e per nulla paragonabili ad altre situazioni di vita. Sono inoltre situazioni che hanno conseguenze per tutta la vita della donna, della coppia, del bambino. Gli studi infatti ci dicono che, dal punto di vista del bambino, gli effetti degli eventi accaduti in questo periodo (belli e brutti) hanno ripercussioni per l’intero arco di vita.

L’interesse dello psicologo perinatale è per l’intero rapporto madre-padre-bambino, che non sono isolati l’uno dall’altro, ma sono in un rapporto di interdipendenza.

Nel periodo prenatale e perinatale è importante per i genitori sia a prepararsi per l’incontro con il bambino, che al profondo cambiamento che ne consegue nella relazione con sé e con l’altro. Entrambi i genitori si preparano quindi ad una serie di eventi che mettono in discussione aspetti di sé profondi, antichi, a volte sentiti come incontrollabili perché si tratta di tutte quelle questioni irrisolte della propria storia che abbiamo tralasciato, ignorato, messo sotto il tappeto. Si tratta quindi di un periodo che, assieme alla sua potenza generatrice porta grandi fragilità.

Da analista transazionale mi è naturale utilizzare la metafora del bambino interiore che scalpita e in questo momento va’ ascoltato e compreso con attenzione e cura, per evitare che si faccia sentire in altri modi meno funzionali, rubando la scena al bambino in arrivo e influenzandone lo sviluppo.

Il modo in cui di diventa genitori, quindi, dipende dal modo in cui andiamo a sbattere contro i nostri limiti, di fronte ai quali possiamo scegliere se andare avanti a testa bassa affrontando ogni difficoltà come un rinoceronte infuriato, oppure fermarci e conoscere questi limiti per poterli spostare un po’ più in là o per comprenderne il senso e trovare delle alternative.

L’arrivo di un bambino ha a che fare proprio con questo: fermarci e conoscere. Conoscerlo, riconoscersi, conoscersi.

Il tempo investito in questo lavoro è tempo donato al bambino, è coltivare la relazione con lui e dargli la possibilità di crescere sereno in questa.

Sarà ora chiaro al lettore quanto sia importante lavorare in questa fase delicata di vita, sia per la delicatezza del presente che per le ripercussioni nel futuro, per il benessere del bambino e dei genitori.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: perché dedicarsi alla psicologia prenatale e perinatale?

Perché è il punto di partenza e di passaggio di tutto, è una finestra sul futuro e sul passato, un nodo in cui si incrociano cose vecchie e nuove, un’enorme possibilità di riprendersi in mano e prendere per mano la nuova vita che arriva.

Blog

Effetto “pianta grassa”

Esistono situazioni nelle quali il tempo manca, ma le cose da fare sono tante. In una società basata sul FARE e sulla performance non ci si concede molto tempo per pensare, ancor meno per sentire e figuriamoci per pensare a cosa gli altri sentono.
Nelle formazioni in ambito lavorativo si parla di concetti come l’intelligenza emotiva o l’empatia fino alla nausea, ma quando si firma la fine del corso è facile rimuovere il loro significato dalla propria mente nel qui ed ora lavorativo.

“Cosa c’entra la pianta grassa?” si chiederà a buon ragione il lettore. Ci arrivo.

Due anni fa, precisamente, mi trovavo all’ospedale infantile e osservavo l’operoso ronzio di medici, infermieri, oss, ostetriche e altro personale sanitario. Ero lì come utente del servizio, come trepidante padre in attesa.
Era successo altre volte di essere lì, ho voluto partecipare ad ogni visita ed ecografia possibile, cosa al momento negata ai futuri papà per motivi di prevenzione COVID, ma quel giorno è successo qualcosa di diverso o, perlomeno, per la prima volta me ne accorgevo: ero una pianta grassa.

Naturalmente tutte le attenzioni e le domande del caso vengono poste alla donna gravida, detentrice indiscussa di ogni indizio o sensazione utile a conoscere il benessere del bambino ed il decorso della gravidanza in sé. Quel giorno mi accorsi che nessuno, tra i molti operatori sanitari che si sono presentati, mi ha concesso il minimo saluto.
Non pretendevo certo molto tempo, sarebbe stato gradito sentirmi dire un semplice “cosa ne pensa il papà?”, troppo sarebbe stato chiedere un “e come sta il papà?”. In quella situazione il minimo sindacale cui mi sarei accontentato sarebbe stato un “buongiorno”.

Non ne faccio una colpa, è un’impostazione culturale e il contesto richiedeva che l’attenzione fosse posta al 99% altrove.

Da lì una serie di riflessioni sul mio 1% negato. L’immagine dei miei “colleghi” papà al corso pre-parto, un incrocio di sguardi di chi si vede poco e di corsa, uno studio reciproco a tratti amichevole ed a tratti diffidente, sguardi persi, sguardi imbarazzati.

La rabbia per il mancato “buongiorno”, per il mancato riconoscimento della mia esistenza, si è tramutata in un tratto in compassione. Non quel sentimento percepito negativamente come uno sguardo pietoso all’altro, ma come reale significato della parola (dal latino cum patior – soffro con – e dal greco συμπἀθεια , sym patheia – “simpatia”, provare emozioni con..).

Esiste un profondo imbarazzo negli uomini nell’alzare la mano, durante la gravidanza o nel post parto, e dire “ci sono anch’io, sono anch’io portatore di dubbi, pensieri, bisogni.”. C’è chi ha la fortuna di potersi confrontare con gli amici, papà anche loro, e tra questi chi è ancor più fortunato riesce anche a potersi esprimere liberamente e senza difese.

Quali difese? Difese dall’essere visti come incompetenti, come dei “mammi” o come dei “mammoni”, di essere visti come “servi” delle proprie compagne nel momento in cui partecipano attivamente.

Durante la gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino, chi è il papà? Per la maggior parte del tempo è una pianta grassa.

E se le pubblicità sono indirizzate alle sole mamme, dipingendo i papà come dei goffi pasticcioni? E se nelle indicazioni dello spazzolino per bimbi c’è l’indicazione su come la mamma può impugnarlo (storia vera)? E se chi prende ferie per stare coi figli viene definito “mammo” da giornali?
Allora è meglio fare la pianta grassa, riconoscere la propria estraneità e limitarsi al proprio ruolo di chi sceglie la macchina e il seggiolino, di chi gioca coi bimbi ma fugge di casa appena può. Forse è giusto così.

Da allora mi sono guardato attorno e mi sono chiesto quale fosse lo spazio che viene dedicato ai papà. Il deserto attorno. Certo, vengono invitati a partecipare anche loro, si dedica un incontro per cercare di capire quale sia il loro ruolo. Ma qualcosa che sia SOLO per i papà? Il deserto attorno.

Dopo la rabbia, lo sconforto, arriva il momento di reagire. Ed è qui che il mio essere papà, un papà che della mancanza di confronto e di riconoscimento se n’è accorto, ha deciso di FARE qualcosa.
Non più un fare “ciò che è sempre stato fatto”, ma un fare frutto di un sentire invadente e prepotente, guidato dal pensare.
Osservare la realtà non più con gli occhi di un Bambino Ribelle che punta i piedi perché non visto o di un Bambino Critico che si limita a dire quanto il mondo sia ingiusto con lui. Osservare la realtà con la libertà di chi si dà il permesso di esprimere i propri bisogni.

Dove c’era il deserto, forte anche della mia professionalità che ben si adatta allo scopo, ho voluto costruire una possibilità diversa e creare dei gruppi di papà che si incontrano e si confrontano.
Con l’aiuto dell’associazione Racconti della Valle questa volontà è diventata concreta per la prima volta. E va’ avanti. E si evolve.

Ho imparato quanto vale una serata con altri papà, quanto preziosa è la teoria che posso fornirgli, quanto ancor più prezioso sia il confronto di idee ed i consigli alla pari. Ho imparato quanto può aiutare una pizza a sciogliere il ghiaccio e far fiorire legami significativi.

Ho imparato anche quanta difficoltà si fa a portare avanti l’idea che anche i papà abbiano dei bisogni di cui occuparsi. Ho visto la miopia con cui questo viene negato, perché le necessità sono altre, perché nel perinatale la priorità è la donna, non comprendendo che un papà impegnato, presente e appagato può sostenere la mamma cento volte meglio e non lasciarla sola.

Perché alla fine di questo si parla: solitudine. Uomini e donne che, soli, fanno ciò che possono e nel sentirsi abbandonati a loro stessi, si fanno soli anche all’interno della coppia, in una guerra tra sessi insensata e fallimentare per entrambi i fronti.

Allora forza genitori, forza mamme e FORZA PAPA’!